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La vita
Si chiamava
Maria Vittoria Rossi
ma nessuno seppe portare bene come
lei lo pseudonimo
Irene Brin: serio nel nome greco, spiritoso nel
breve cognome dal suono musicale. Fra i suoi tanti pseudonimi
(Marlene, Mariù, Oriane, Geraldine Tron, Maria del Corso, Contessa
Clara, Madame d'O), questo - trovatole da
Leo Longanesi
quando
l'invitò a scrivere per "Omnibus"
nel 1937 - divenne tutt'uno con lei perché più di tutti rispecchia
la persona e il particolare tipo di giornalismo che lei incarnò:
colto, brillante, leggero, talvolta caustico, mai superficiale, mai
nemmeno sfiorato da un'ombra di volgarità. O di supponenza. O di
intellettualismo a buon mercato.
Eppure
era forse una delle donne più cosmopolite di quell'epoca euforica e
contraddittoria che fu il secondo dopoguerra, perfettamente
introdotta nella superstite grande nobiltà europea come nell'alta
società americana e negli ambienti artistici e intellettuali, romani
e non romani.
Solo a una come Irene Brin poteva capitare di passeggiare un
pomeriggio del 1950 a New York per Park Avenue indossando un
tailleur di Fabiani e di sentirsi interpellare da una
scheletrica, elegantissima dama: «Ma dove l'ha preso quel
tailleur? Di chi è?» |
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Veramente indiscreta la signora, almeno secondo i canoni ferrei di
riservatezza seguiti da Irene Brin e da lei suggeriti alle sue
lettrici e ai suoi lettori, ma tant'è, era pur sempre un'americana,
andava scusata. Anche perché rivelò chiamarsi
Diana Vreeland, mitica
e tremenda direttrice di "Harper's Bazaar", la più sofisticata delle
riviste newyorchesi alla quale collaboravano scrittori come
Truman
Capote e
Carson Mac Cullers, fotografi come
Brassaï e Henri
Cartier-Bresson. Un ambiente elitario che mescolava moda e
avanguardia culturale, dettando legge nel costume, nel
comportamento, nelle scelte degli
happy few. La nuova collaboratrice
Irene Brin non era da meno: a quell'epoca aveva già viaggiato il
mondo in lungo e in largo e parlava cinque lingue. |
Era nata a Roma nel 1911. Famiglia
composita e multiculturale la sua: il padre ferreo generale di
carriera, la madre una fantasiosa ebrea di nascita austriaca, che le
insegnò le lingue e le trasmise la passione per l'arte e la
letteratura. Appena ventunenne debuttò sul
quotidiano "Il Lavoro"
di Genova, firmandosi Mariù, pseudonimo al quale preferì
poi il proustiano Oriane. Ma fu
Longanesi a “inventarla” come Irene Brin
e come giornalista di costume.
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Quando cominciò a scrivere per "Omnibus"
-12 aprile 1937-, Irene Brin aveva 26 anni. Due anni prima, al ballo
della cavalleria presso il Grand Hotel Excelsior di Roma, aveva
conosciuto
Gaspero del Corso,
aitante giovane ufficiale nato in Eritrea: fu amore improvviso,
sbocciato da una appassionata discussione sulla
Recherche, cementato in quattro incontri
successivi nei quali i due scoprirono di aver in comune la passione
per l'arte, per la lettura e per i viaggi. Del Corso era un
collezionista attento e intuitivo e un viaggiatore intelligente. Il
loro fu un matrimonio per la vita. |
Insieme la giovane coppia viaggiò per il mondo, guardando,
conoscendo, allacciando contatti, intrecciando rapporti. Fu la nuova
guerra a fermarli.
Nel 1943 tornarono a Roma, con pochissimi mezzi e
incerte prospettive per il futuro. Vivevano nascosti, perché Gaspero
nella confusione dell'armistizio era un ufficiale in clandestinità
che per di più nascondeva altri militari sbandati, antifascisti e
umanità varia. Si mantenevano con le traduzioni di Irene per vari
editori, proventi che si facevano sempre più scarsi e precari. Alla
fine, non sapendo più come far quadrare lo sparuto bilancio, Irene
decise di vendere i regali di nozze: cominciò con una borsetta di
coccodrillo e proseguì con disegni di
Picasso,
Matisse,
Morandi. Poi
trovò un posto di commessa alla libreria La Margherita dove Gaspero,
al quale Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico, aveva trovato il falso nome di Ottorino
Maggiore, l'aiutava a trovare libri, quadri e compratori. Un giorno
passò dal negozio un giovanotto a mostrare un portfolio di splendidi
disegni a inchiostro. «Mi chiamo Renzo
Vespignani», disse. Irene
comprò i disegni dell'esordiente e li rivendette il giorno stesso. Poco tempo dopo lasciò La Margherita e affittò un localuccio in via
Sistina: era nata la galleria "L'Obelisco" di
Gaspero e Maria del
Corso, una delle più famose di Roma e d'Italia dove sarebbero
passate tutte le avanguardie degli anni Cinquanta-Sessanta, ma anche
tutti i “classici” dell'anteguerra:
Afro, Capogrossi, Fontana, Burri,
Pomodoro accanto all'“epurato”
Sironi, a
Morandi, De Chirico, Balla, Campigli. E poi per la prima volta in Italia i grandi stranieri:
Matta, Magritte, Kandinskij,
Moore, Calder, Dalí, Bacon,
Rauschenberg.
Contemporaneamente Irene scriveva: con uno stile asciutto, ironico,
pungente, appena deliziosamente snob, profondamente laico, che
irritava il populismo marxista come il perbenismo democristiano.Scriveva di moda, che fu con l'arte la sua grande passione. I suoi
reportage su
Pucci, su
Capucci, sulle
sorelle Fontana, su
Fabiani, dalle colonne
di Harper's Bazaar, spalancarono alla moda il Golden Gate d'America.
Fu lei a portare in casa del marchese
Giovanni Battista Giorgini
(il
promotore della famosa sfilata del made in Italy nel 1951) il primo
gruppo di compratori statunitensi.
Alle sfilate di palazzo Pitti, a
Irene era riservata una poltrona,
accanto a quella della sua grande
amica, la disegnatrice Brunetta Mateldi.
Il 2 giugno del 1955 le venne conferita l’onorificenza di Cavaliere
ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, come
riconoscimento della intensa attività svolta come giornalista in
Italia e all’estero per lo sviluppo e
l’affermazione della moda
italiana nel mondo |
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Intanto dalle pagine della Settimana Incom la misteriosa
Contessa
Clara
(solo dopo la chiusura della rubrica se ne conobbe l'identità)
elargiva consigli di savoir faire: come vestire, come comportarsi,
che cosa assolutamente non fare. Sostenitrice di un'eleganza che
aveva i suoi modelli in Coco Chanel e in Wallis Simpson, duchessa di
Windsor, per la quale non si era mai «troppo ricche e troppo magre».
Preziose pillole di saggezza, intelligenza e umanità, prima ancora
che lezioni di stile. Perché la Contessa Clara non insegnava
soltanto a usare bene il coltello a tavola, a organizzare alla
perfezione un ricevimento, a scegliere i calzini giusti o la giusta
sfumatura di rossetto. Fondamentale era, sempre e dovunque, il
rispetto di se stessi e degli altri. E questo insegnamento, che oggi
appare così desueto, è la più preziosa eredità del bon ton di Irene Brin. «Siate, tranquillamente, generosi e cortesi verso chi non fa
alcun conto sulla generosità e sulla cortesia altrui». «La
comprensione, il rispetto delle personalità altrui sono i soli
sistemi per sembrare, ed essere, veramente intelligenti». |
A cavallo tra l'etica ferrea
dell'anteguerra
europeo e l'incalzare
di una nuova società affacciata su entrambe le sponde
dell'Atlantico, Irene Brin si muove con sicurezza sul rischioso
spartiacque che divide la disinvoltura
up to date dalla rumorosa
maleducazione, senza rischiare mai di perdere l'equilibrio. Non cede
al populismo («Non approvo i campeggi, li considero noiosi,
stanchevoli, ingiusti e vagamente immorali»), né alla sciatteria
(«Non ho mai mangiato, né mai mangerò, un gelato da passeggio»).
Divorzista convinta, non teme di scrivere: «Spero di non irritare le
mie lettrici... quando dirò che, per la donna, il matrimonio
simboleggia il vero, grande, unico successo». È ancora l'epoca in
cui «una signora sola evita di andare al bar a bere qualcosa in
piedi» ma
già si diffonde la televisione che «probabilmente non è
una forma d'arte, e nemmeno d'informazione, perché soggiace a
tendenze politiche ed isteriche assolutamente discutibili» ma con la
quale bisogna pur fare i conti. Irene Brin
morì nel 1969. Quando seppe della malattia che la stava corrodendo,
decise che la cosa migliore era continuare a vivere e a lavorare,
come sempre. Nel maggio del 1969 andò in macchina con Gaspero a Strasburgo per
presenziare all'inaugurazione della mostra
Les Ballets Russes de Sergej P. Diaghilev,
cui l'obelisco aveva contribuito
inviando la ricostruzione elettronica dei
Feux d'artifice
di Giacomo Balla. Si sentì male al
ritorno e fece sosta nella sua casa di Sasso,
dove morì la settimana
dopo. Così non fece in tempo a vedere la maleducazione
post-Sessantotto. Nel 1964 aveva scritto: «Il dopoguerra è finito,
un poco malinconicamente, come finiscono i periodi di euforia e
benessere.» E poi: «Viviamo avvolti di un fracasso inutile, di
un'angoscia stupida». Fracasso e angoscia: gli emblemi del tempo di
oggi.
Alberto Fabiani le dedicò la collezione primavera-estate 1970,
ricordandola con parole di stima e di affetto, ricordando la donna
elegante e l'autorevole giornalista che sempre seppe capire, seguire
e incoraggiare la moda italiana.
Dal 1969, l'Accademia di costume e di moda di Roma istituisce il
Premio Irene Brin
in ricordo della grande giornalista di moda,
appassionata sostenitrice dell'accademia, e supporto dei nuovi
talenti.
approfondimento
intervista del "Piccolo" di Trieste al
nipote Vincent Torre
Liberamente
tratto da:
Domizia
Carofoli, "Non è il bon ton che fa la vera signora" Il Giornale 02-07-2006.
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